Di tempo, di edera e di mattoni
“Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo.”
(M.Proust – Alla ricerca del tempo perduto)
Il recupero e la preservazione della memoria sono due passaggi obbligati per conoscere la storia, sia essa limitata al luogo in cui si vive (o da cui si proviene) che quella – per esteso – di un Paese intero, tanto più in un’epoca in cui la memoria viene spesso sovrapposta e confusa con il concetto di acquisire e immagazzinare informazioni, che spesso rimangono fini a se stesse.
Nella maggior parte dei casi la memoria inizia a sgretolarsi quando vengono meno i perni su cui ruota la veicolazione del messaggio: i testimoni.
Le gigantesche banche-dati, che oggigiorno hanno funzione mnemonica sostituendo quello che prima era il cardine centrale della storia – ovvero il “testimone” della stessa – hanno snaturato il concetto di memoria, confondendo il reale e il virtuale, il vero e il verosimile.
Ecco, allora, che la memoria finisce con l’intrecciare verità e fantasia, fatti realmente accaduti con fatti che, passando di mano in mano e di bocca in bocca, si arricchiscono o depauperano con l’andar del tempo, perdendo aderenza con la realtà degli accadimenti, diventando magari più accattivanti ma, alla fin fine, meno sinceri.
Un luogo fisico (o un oggetto) è strettamente necessario per portare avanti la memoria storica? Ciò che riguarda il passato, per sopravvivere, ha bisogno di un supporto che sia sì astratto o immateriale (il ricordo) ma anche di un sostegno materiale, tangibile? E, estendendo, esso deve essere legato a una zona geografica per acquisire completa consapevolezza o veridicità? Probabilmente sì o, meglio, luogo (che può intendersi sia come spazio fisico che come manufatto) e memoria vanno completandosi l’uno con l’altra, in uno scambio attivo di ricordi visivi e non.
Il tempo prende e il tempo dà. In quest’epoca più frequentemente prende, raramente restituisce.
I paesi, le case, i fiumi, le pietre sono i testimoni meno soggetti a usura (anche se prodighi di cambiamenti). Sono i nostri “cantieri della memoria”. Cambiano i tempi, cambiano le persone, cambia la sensibilità ed essi portano la testimonianza della loro epopea alle generazioni che, una dopo l’altra, si susseguono ed intrecciano, tutelando e preservando la memoria del luogo e di tutte quelle vicende che li hanno visti protagonisti, attivi o passivi.
Ma la “conditio sine qua non” è che ci sia qualcuno che ricorda e/o che sia disposto a raccontare. Il ricordo, imprescindibile da una dimensione affettiva, appartiene a pochi e quei pochi vanno via via scomparendo; la memoria, con l’atto stesso di essere trasmessa, diviene così patrimonio sia di chi ha vissuto un evento che di chi lo ha sentito raccontare; perciò di tutti.
La nostra memoria (chi siamo, da dove veniamo, cosa abbiamo fatto, chi siamo diventati – con il passare dei anni e delle epoche – e dove stiamo andando) è come un robusto edificio in mattoni su cui si arrampica l’edera del tempo. Se la casa è solida l’edera abbellisce ed arricchisce, con le sue verdi foglie splendenti ed i rami che si intrecciano. Ma se i muri presentano cedimenti per mancanza di cura e manutenzione, allora l’edera del tempo si insinuerà tra le crepe del disinteresse fino a sgretolare i mattoni e a far cadere le pareti. E il patrimonio culturale legato alla memoria subirà il triste destino che accomuna tutto ciò di cui non ci si prende cura: andrà perduto.
Monica Gasparotto
La scrittura e l’ironia sono cose serie. Esattamente come il cioccolato.
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